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“Lettres du Voyant” commentate da V.B. Šklovskij
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“Lettres du Voyant” commentate da V.B. Šklovskij

Avvertenza

 

Da dove viene fuori l’idea di accostare Arthur Rimbaud e Viktor Šklovskij, se nel francese la letteratura è un fuoco che s’accende e si spegne nel vento della sua stessa urgenza di apparire (“Fu all’inizio uno studio. Scrivevo silenzi, notti, segnavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini”, Una stagione all’inferno) e nel russo la letteratura è procedimento in cui la forma è ogni cosa, poiché essa racchiude in sé le delizie della contraddizione: (“Comunque, non parlerò d’amore. Vedi, scrivo sempre di letteratura”, Zoo o Lettere non d’amore)?
La risposta sta in un certo tipo di analogia – un’analogia oppositiva, nella quale non si tenta la conciliazione, ovvero non si cerca di spiegare Rimbaud con Šklovskij e viceversa. Chi ha pensato questa analogia sa il rischio che corre, sa che potrebbe essere tutto frainteso, pertanto l’unico consiglio o avvertimento è sospendere il giudizio, lasciarsi andare al ritmo delle associazioni.
Questo non è un gioco metaletterario, finzionale, in cui spostando i termini dell’analogia si arriva a una soluzione. La soluzione non si dà, ogni cosa è ancora lontana da poter essere detta e pensata con ordine. Se per esempio vengono accostati “sregolamento” (dérèglement) e “straniamento” (ostranenie), non si vuole costringerli a una familiarità che è loro estranea, ma si vuole iniziare a porre una questione di composizione, che vorrebbe tenere conto non tanto del momento in cui queste parole furono scritte (non qui, in questo spazio), quanto della loro funzione di procedimenti letterari.

***

Rimbaud a Georges Izambard

Charleville, 13 maggio 1871

Caro Signore,
ecco professore! Bisogna darsi alla Società, lei mi ha detto; lei fa parte del copro insegnanti: lei viaggia sulla buona strada. – Anch’io, io seguo il mio principio: mi faccio cinicamente mantenere; riesumo vecchi imbecilli di liceo: tutto ciò che posso inventare di stupido, sozzo, malvagio, in atti o parole, lo offro a loro: mi si ripaga in boccali di birra e bicchieri di vino. Stat mater dolorosa, dum pendet filius. – Io mi do alla Società, è giusto – e ho ragione –. Anche lei, lei ha ragione, per oggi. In fondo, lei non vede nel suo principio che poesia soggettiva: la sua ostinazione a far ritorno alla rastrelliera universitaria – mi scusi! –, ne è la prova. Lei però finirà sempre come un uomo soddisfatto che non ha fatto niente, perché non avrà voluto fare niente. Senza contare che la poesia soggettiva sarà sempre orribilmente insapore[1]. Un giorno, spero – ben altri attendono la stessa cosa – io vedrò nel suo principio la poesia soggettiva, io la vedrò più sinceramente di quanto lei non farà![2] Sarò un lavoratore: è l’idea che mi trattiene, quando la folle collera mi spinge verso la battaglia di Parigi, in cui tanti lavoratori intanto muoiono ancora mentre le scrivo! Lavoratore adesso, mai, mai: sono in sciopero. Ora mi do alla crapula il più possibile. Perché? Io voglio essere poeta e lavoro a rendermi veggente: lei non comprenderà affatto e io non saprei quasi come spiegarle[3]. Si tratta di arrivare all’ignoto attraverso lo sregolamento[4] di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forte, essere nato poeta, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è tutta colpa mia. È falso dire: io penso, bisognerebbe dire: sono pensato. – Scusi il gioco di parole.
IO è un altro[5]. Tanto peggio per il legno che si ritrova violino, e Disprezzo degli incoscienti, che cavillano su ciò che ignorano del tutto!
Lei non è un insegnante per me. Io le faccio omaggio di questo: è satira, come la definirebbe? È poesia? È fantasia, sempre. – Ma, la supplico, non sottolinei con la matita né – troppo – col pensiero: [segue “Le cœur supplicié”, NdT]

Questo non vuol dire niente. MI RISPONDA: presso M. Deverrière, per A. R.

Buona giornata con affetto

A. Rimbaud

***

 

Rimbaud a Paul Demeny

Charleville, 15 maggio 1871

Ho deciso di farle omaggio di un’ora di letteratura nuova. Inizio subito con un salmo d’attualità: [segue “Chant de guerre parisien”, NdT]

– Ecco un po’ di prosa sull’avvenire della poesia[6]. –

Tutta la poesia antica sfocia nella poesia greca, Vita armoniosa. – Dalla Grecia al movimento romantico – Medio Evo – ci sono letterati, versificatori. Da Ennio a Teroldo, da Teroldo a Casimir Delavigne, tutto è prosa rimata, un gioco, infrollimento e gloria di innumerevoli generazioni idiote: Racine è il puro, il forte, il grande. – Se si fosse soffiato sulle sue rime, confuso i suoi emistichi, il Divino Idiota sarebbe oggi anch’egli tanto ignorato quanto qualsiasi autore di Origines. – Dopo Racine, il gioco ammuffisce. È durato duemila anni![7]
Nessuno scherzo, né paradosso. La ragione mi ispira più certezza sull’argomento di quanta collera non avrebbe mai avuto di un Jeune-France. Del resto, libertà ai nuovi d’esecrare gli antenati: si è a casa propria e c’è tempo.
Non è mai stato giudicato bene il romanticismo. Chi l’avrebbe potuto giudicare? I Critici! I Romantici, che provano tanto bene che la creazione è così poco spesso l’opera, cioè il pensiero cantato e compreso dal cantore?
Poiché IO è un altro[8]. Se l’ottone si risveglia tromba, non è per niente colpa sua. Per me è evidente. Assisto al nascere di un mio pensiero: lo osservo, lo ascolto: suono una nota con l’archetto: la sinfonia fa il suo movimento in profondità o viene d’un balzo sulla scena.
Se i vecchi imbecilli non avessero trovato del Me soltanto il significato falso, noi non dovremmo spezzare questi milioni di scheletri che, dopo un tempo infinito, hanno accumulato le produzioni della loro equivoca intelligenza, proclamandosene gli autori![9]
[…] L’intelligenza universale ha sempre gettato le sue idee con naturalezza; gli uomini raccoglievano una parte di quei frutti del cervello: si agiva per suo tramite, si scrivevano libri: così andava la marcia, l’uomo non lavorava su se stesso, non era stato risvegliato, o non ancora, nella pienezza del grande sogno. Funzionari, scrivani. Autore, creatore, poeta, quest’uomo non è mai esistito![10]
Il primo studio dell’uomo che vuole essere poeta è la conoscenza di se stesso, per intero. Egli cerca la sua anima, la ispeziona, la tenta, la conosce. Dal momento in cui la conosce, la deve coltivare: sembra facile[11]: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; e ce ne sono tanti altri che si attribuiscono i loro progressi intellettuali! – Ma bisogna rendere l’anima mostruosa: alla maniera dei comprachicos, insomma! Immagini un uomo che si impianti e coltivi delle verruche sulla faccia.
Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente![12]
Il poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento[13] di tutti i sensi. Ogni forma d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé ogni veleno, per conservarne la quintessenza. Ineffabile tortura per la quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, per cui egli diventi tra tutti il gran malato, il gran criminale, il grande maledetto – e il supremo Sapiente! –, poiché egli arriva all’ignoto. Dopo aver coltivato la sua anima – già ricca più di ogni altro – arriva all’ignoto; e quando, fuori di sé, finisse per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe viste! Crepi nel suo salto per le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori, cominceranno dagli orizzonti su cui l’altro si è accasciato.

– Il seguito fra sei minuti –

Qui intercalo un secondo salmo fuori traccia: voglia tendere un orecchio compiacente, e tutto il mondo sarà sedotto. – Ho l’archetto in mano, comincio: [segue “Mes petites amoureuses”, NdT]

[…]

Riprendo.
Così il poeta è davvero un ladro del fuoco.
Si è fatto carico dell’umanità, degli stessi animali; egli dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta da laggiù ha forma, darà forma; se è informe, darà l’informe. Trovare una lingua[14]
Del resto, essendo ogni parola un’idea, verrà il tempo di un linguaggio universale. Bisogna essere accademico, più morto di un fossile, per completare un dizionario di qualsiasi lingua!
Dei deboli che si mettessero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto, potrebbero subito rovinare nella follia.
Questa lingua sarà dell’anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori del pensiero che afferra il pensiero e tira. Il poeta definirebbe la quantità d’ignoto che si risveglierebbe nel suo tempo, dentro l’anima universale: donerebbe più della formula del suo pensiero, più dell’annotazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che diventa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso[15].
Questo futuro sarà materialista, lei lo vede. – Sempre colmi del Numero e dell’Armonia, le poesie saranno fatte per restare. – In fondo, questo sarebbe ancora un po’ la Poesia greca.
L’arte eterna avrebbe le sue funzioni, come i poeti sono cittadini. La poesia non darà il ritmo dell’azione; sarà avanti.
Questi saranno poeti! Quando sarà infranto l’infinito servaggio della donna, quando vivrà per se stessa e con se stessa, l’uomo – fino da oggi abominevole – l’avrà congedata, lei sarà poeta, anche lei! La donna scoprirà l’ignoto. I suoi mondi di idee differiscono dai nostri? – Lei troverà cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose, noi le prenderemo, le comprenderemo.
Nell’attesa, chiediamo ai poeti cose nuove – idee e forme. Tutti gli scaltri crederebbero ben presto di aver soddisfatto la domanda. Non è così!
I primi romantici sono stati veggenti senza rendersene troppo conto: la coltura della loro anima è iniziata per dei fatti accidentali: locomotive abbandonate, ma ardenti, che le rotaie per qualche tempo imprigionano […].
I secondi romantici sono stati molto veggenti: Théophile Gautier, Lec[conte] de Lisle, Théodore de Banneville. Ma investigare l’invisibile e ascoltare l’inaudito sono altro dal recuperare lo spirito di cose morte; Baudelaire è il primo veggente, re dei poeti, un vero Dio. Eppure è vissuto in un contesto ancora troppo da artista; e la forma in lui così vantata è meschina[16]. Le invenzioni d’ignoto reclamano forme nuove. […] Ecco. Così io lavoro a farmi veggente. […] E finiamo con un canto pietoso. [segue “Accroupissements”, NdT]

Lei sarebbe esecrabile se non mi rispondesse: faccia presto, poiché fra otto giorni potrei essere a Parigi.

Arrivederci

A. Rimbaud

 

***

[1] C’è la possibilità di rinnovare il cliché sottolineandone la convenzionalità, e allora è possibile un successo, il successo del gioco con la banalità. [V. B. Šklovskij, “La letteratura estranea all’intreccio”, Teoria della prosa, p. 274]

[2] Questo tradimento in letteratura è l’avvicendamento delle scuole letterarie. [V. B. Šklovskij, “La letteratura estranea all’intreccio”, Teoria della prosa, p. 275]

[3] Le forme dell’arte si spiegano con la loro conformità alle leggi dell’arte, e non con le motivazioni di vita. [V. B. Šklovskij, “Il romanzo parodistico. «Tristram Shandy»”, Teoria della prosa, p. 243]

[4] Dicevo che la contraddizione stava nella domanda: […] Che cosa mi prometto tramite il mio prodotto artistico: intervenire sul mistero del mondo o affermare la mia percezione? [V. B. Šklovskij, “Arte e vita. Le misteriose antinomie”, Le autoblinde del formalismo, Conversazione con Viktor B. Šklovskij tra memoria e teoria, p. 45]

[5] La percezione del mondo nasce nel cervello […] e gli pone problemi angosciosi o allegri. Ci si guarda attorno e si sente il bisogno urgente – angoscioso o allegro – di esaltare o esorcizzare la propria percezione, il suo oggetto, in una forma che non è data in natura: il segno. [V. B. Šklovskij, “Kandinskij ovvero l’armistizio tra le arti”, Le autoblinde del formalismo, Conversazione con Viktor B. Šklovskij tra memoria e teoria, p. 84]

[6] È del tutto pacifico che la lingua subisce l’influsso dei rapporti sociali. […] Ma la parola non è un’ombra. La parola è un oggetto. E cambia secondo sue proprie leggi, legate alla fisiologia del linguaggio, e così via. […] Nell’ambito della teoria della letteratura intendo studiare le sue leggi interne. Per usare un parallelo industriale, dirò che non mi interesso della situazione del mercato mondiale del cotone e neppure della politica dei trusts, ma solo del tipo di filato e dei modi di tesserlo. [V. B. Šklovskij, “Prefazione”, Teoria della prosa, p. 3]

[7] Anche la poesia si conosce, entro un certo lasso di tempo, e poi anch’essa va avanti. Le poetiche stanno al di là della conoscenza, concludono le costruzioni poetiche. [V. B. Šklovskij, “Postfazione alla prefazione”, Teoria della prosa, p. XX]

[8] L’immagine non è un soggetto costante di mutevoli predicati. Scopo dell’immagine non è l’avvicinamento del suo significato alla nostra comprensione, ma la creazione della sua «visione», e non del suo riconoscimento. [V. B. Šklovskij, “L’arte come procedimento”, Teoria della prosa, p. 19]

[9] Il linguaggio poetico è un «linguaggio-costruzione». [V. B. Šklovskij, “L’arte come procedimento”, Teoria della prosa, p. 24]

[10] Il poeta sposta tutte le insegne; l’artista è sempre l’istigatore nella rivolta delle cose. [V. B. Šklovskij, “I paralleli in Tolstoj”, La mossa del cavallo, p. 109]

[11] La strada dell’arte è una strada tortuosa, una strada sulla quale il piede sente le pietre, una strada che torna indietro. Una parola si accosta all’altra, una parola sente l’altra, come una guancia l’altra guancia. [V. B. Šklovskij, “Il legame tra i procedimenti di composizione dell’intreccio e i procedimenti generali dello stile”, Teoria della prosa, p. 27]

[12] Il mondo nuovo deve essere un mondo senza soluzione di continuità. [V. B. Šklovskij, “La fattura e il «controrilievo»”, La mossa del cavallo, p 97]

[13] Ed ecco che per restituire il senso della vita, per «sentire» gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come «visione» e non come «riconoscimento»; procedimento dell’arte è il procedimento dello «straniamento» degli oggetti e il procedimento della forma oscura che aumenta la difficoltà e la durata della percezione, dal momento che il processo percettivo, nell’arte, è fine a se stesso e deve essere prolungato: l’arte è una maniera di «sentire» il divenire dell’oggetto, mentre il «già compiuto» non ha importanza nell’arte. [V. B. Šklovskij, “L’arte come procedimento”, Teoria della prosa, p. 12]

[14] La parola in poesia non è soltanto parola, si tira dietro decine, migliaia di associazioni. L’opera ne è permeata come l’aria di Pietroburgo è permeata di neve durante una tormenta. [V. B. Šklovskij, “Monumento alla Terza Internazionale”, La mossa del cavallo, p. 100]

[15] Un motore che superi i quaranta cavalli è già in grado di annientare la vecchia morale. […] Non bisogna dimenticare i meriti dell’automobile dinanzi alla rivoluzione. [V. B. Šklovskij, “Lettera introduttiva”, Zoo o Lettere non d’amore, 1924, p.135]

[16] Le leggi di autocreazione dialettica di nuove forme e di attrazione di nuovi materiali, alla morte delle forme, hanno lasciato il vuoto. L’anima dell’artista cerca nuovi temi. [V. B. Šklovskij, “La letteratura estranea all’intreccio”, Teoria della prosa, p. 279]

***

Bibliografia:

Arthur Rimbaud: Rimbaud Opere, Mondadori, 1975 [Le lettere sono state tradotte da Luca Mignola]

Viktor B. Šklovskij: Teoria della prosa, Einaudi, 1976

Viktor B. Šklovskij: La mossa del cavallo, De Donato Editore, 1967

Viktor B. Šklovskij: Zoo o Lettere non d’amore, Sellerio Editore, 2019

Enzo Roggi: Le autoblinde del formalismo, Conversazione con Viktor B. Šklovskij tra memoria e teoria, Sellerio Editore, 2006

La copertina è stata tratta da qui.

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