Dieci Chili
Sera: pioveva e tenevo l’ombrello basso; il braccio era troppo stanco per sostenerlo qualche centimetro in più sopra la testa.
Stringevo le spalle e cercavo di respingere il freddo soffiando sulla mano libera. L’alito non era abbastanza caldo per scongelare le dita tagliate da guanti fasulli. Li avevo comprati per pochi soldi in un discount. Le unghie erano viola e i polpastrelli tanto insensibili che se uno spillo mi avesse punto non me ne sarei accorta.
I calzini erano bagnati; l’acqua era passata senza fatica dalle scarpe. Sentivo i piedi gelati e me li immaginavo bianchi come quelli di un morto.
I vestiti erano umidi; la pesante massa appiccicata alla mia schiena, al collo, al petto, alle gambe, ai polpacci e perfino alle caviglie mi dava fastidio.
I capelli, invece, stavano bene dentro il cappello di lana che mi aveva regalato un’amica molti anni prima. Era passato da tante valigie e da tanti armadi che mi chiedevo quale fosse il segreto della sua resistenza: forse gli intrecci robusti, legati tra loro da cuciture invisibili.
Oltre l’impugnatura dell’ombrello vedevo sagome strisciarmi vicino. La strada era piena di ombre senza facce: solo lunghi arti inferiori che si muovevano veloci e si allungavano per superare con un salto le pozzanghere.
Il treno
Andai verso i treni che dalla stazione di Duisdorf ripartono per fare due ultime fermate: una per Bonn e una che ti porta diritto nel cuore di Koeln, dove la cattedrale domina attraverso arcate di ferro sul grosso e grigio Reno.
Avevo paura di rientrare in casa, perché ad aspettarmi c’erano solo i cattivi pensieri, i circoli chiusi di immagini deformate e le lacrime pronte a sgorgare dall’occhio spento. Sì, avrei ritrovato il mio fuoco freddo incapace di bruciare un’autocommiserazione senza fine.
I rumori di fuori servivano a coprire le parole che sguazzavano libere in testa abbattendo con violenza ogni residuo di sanità; loro si stavano prendendo le ultime gocce con cui avrei potuto sopravvivere.
Quella sera ero più decisa a buttarmi sotto il treno di Duisdorf piuttosto che ritrovarmi in silenzio tra le fiamme del fuoco freddo.
Ecco perché imboccai la piccola strada che portava alla stazione.
La costeggiava un prato che la sera era deserto; e nonostante volessi uccidermi speravo di vedere qualcuno muoversi tra i fili d’erba lasciati soli ad affrontare il buio dell’ora tarda. La percezione del pericolo era pompata dalla consapevolezza che la morte sarebbe avvenuta in solitudine. Non potevo pretendere che qualcuno mi tenesse la mano mentre venivo maciullata.
Cominciai a correre lasciando andare l’ombrello. Se lo prese il vento e lo trascinò lontano. E quando mi girai vidi solo una macchia nera svolazzare verso la pattumiera al di là del viale.
Ripresi a correre e avvertii il grasso della pancia che ballava cercando di liberarsi dai jeans stretti. Avrei dovuto perdere almeno dieci chili, ma ormai avevo deciso di dare la mia carne in pasto alle rotaie; di chili ne avrei persi molti di più e più in fretta.
Smisi di correre per non sentire il grasso tremare e la scena tragica, architettata qualche minuto prima, perse il suo vigore.
Al binario, cercai il tabellone che segnava arrivi e partenze. Era troppo tardi e Bahnhof Duisdorf una stazione troppo piccola per far girare i treni dopo le 20.00.
Il phon
Ritornai a casa senza ombrello e tenevo i guanti e il cappello nelle tasche. Me li ero tolti salendo le scale in preda a un prurito alla fronte e alle nocche: era l’allergia alle fiamme fredde che mi aggredirono poco dopo, mentre io rimanevo bagnata a gocciolare.
Andai in bagno per asciugarmi.
Piangevo e pensavo alla maledetta clemenza dei treni, alla loro bontà non richiesta. Osservavo, cercavo un oggetto malvagio in grado di uccidermi. Lo scorsi tra i prodotti per capelli: nero e affusolato, con le griglie dietro che tenevano prigionieri vecchi peli.
Dovevo far cadere il phon sul piatto della doccia e si sarebbe raccolta abbastanza acqua per veicolare le scariche elettriche verso il mio corpo, e da lì, dentro i tessuti irrorati dal sangue, le scariche avrebbero marciato verso il cuore per scoordinare i suoi ritmi vitali.
Mi spogliai ed entrai nella doccia e feci scorrere l’acqua. In poco tempo si creò una nuvola di vapore; e io prevedevo che il fumo della mia carne arrostita l’avrebbe superata in consistenza e in odore, e così mi avrebbero trovata.
Mi concentrai e abbassai la testa per accogliere il flusso liquido sulla nuca.
E notai la figura tonda della pancia che si piantava tra me e i piedi. Dovevo iscrivermi in palestra e mangiare di meno. Ma poi ritornai a pensare al suicidio.
Tendendo il braccio il più possibile cercai di afferrare il phon. Era lontano: una misura che non avevo preso prima segnava la fine del mio secondo tentativo. Ero troppo pigra e annoiata per abbandonare la doccia e ripetere il rito.
Mi dovetti rivestire con la faccia di un’arresa.
Rientrai nella stanza da letto che odoravo di pulito e con il calore ancora addosso gironzolai per un po’ non sapendo cosa fare. Non avevo voglia di leggere e nemmeno di ascoltare musica o bere qualcosa. Mi fermai per guardare fuori dalla finestra: i tetti delle altre case scaricavano fumo bianco e mi addoloravo nel percepire che oltre i muri dei miei estranei vicini stava trascorrendo una vita che forse avrei voluto.
La corda
Abitavo in una stanza che in realtà era una mansarda: le finestre stavano sul soffitto e per aprirle dovevi tirare una leva che le faceva piegare verso l’esterno e creava un piccolo buco da cui entrava l’aria. Avevo un letto grande, una scrivania lunga e rettangolare, un armadio a quattro ante e due sedie di plastica.
Dietro la testata del letto ci stava una corda che avevo usato per chiudere i pacchi durante il trasloco. La leva della finestra, la sedia e la corda mi avevano dato un’idea: bastava combinarle insieme per tentare di nuovo.
Scrissi una lettera in cui spiegavo i motivi del suicidio e pensai che era stato meglio non esserci riuscita prima, perché l’idea della lettera non mi era venuta. Mi rivolgevo alle persone a cui volevo bene e gli chiedevo di perdonare la mia scelta. Abbozzai pure una poesia, e io di poesie non ne ho mai scritte; e che non ne avevo mai scritte prima lo riportai nella lettera. La lasciai sulla scrivania e mi affrettai ad afferrare la corda.
Mentre mi piegavo per prenderla mi accorsi che da piegata il grasso della pancia sembrava più abbondante e mi domandai quale era la verità: se piegarmi non mi mostrava semplicemente come ero davvero. Un insieme di rotoli di grasso sovrapposti uno sull’altro. Dovevo fare nuoto o roba del genere e mangiare meno pane. Ormai comunque era inutile stare a rimuginare sul mio lardo.
Feci un nodo intorno alla leva e un altro intorno al collo. Un ultimo pensiero andò al mondo che stavo lasciando e al posto vuoto che qualche altro essere umano appena nato avrebbe subito riempito. Uno che va via e uno che arriva, senza sapere che cosa lo aspetta. Diedi un calcio per spingere la sedia e finalmente penzolavo.
Peccato che non ebbi neanche il tempo di non riuscire a respirare. Di sopra la corda si era già rotta per il peso e di sotto anche la sedia non aveva retto il carico. Mi feci molto male, ma non morii. Feci un gran rumore, ma non fu necessaria neanche l’ambulanza.
Dovevo perdere dieci chili per riuscire ad ammazzarmi e nel frattempo decisi di fare le valigie. All’indomani avrei preso il treno per Koeln.