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Onicofagia

Avevo la faccia pulita dal vento di maestrale e la terra, sempre la terra sotto le unghie. Non mi importava nulla, le mordevo uguale, le unghie d’estate avevano il sapore del sale e di tutto il resto che toccavo. Le tenevo sempre in bocca, con le dita piegate.

Da piccola mia madre mi impediva di mangiare le saponette e di rosicchiare l’intonaco dei muri, ma tutto aveva un sapore e io volevo scoprirlo. Ero acida di vernice sotto il palato e di un nervosismo infantile che mi faceva venire male nelle fotografie, ne sono rimaste alcune che mi ritraggono mentre digrigno i denti fingendo un sorriso, con le labbra bianche.

Non mi sfuggiva niente, di nascosto lasciavo i solchi degli incisivi sulle matite, rosicchiate all’estremità. Il suono stridente delle forchette sfregate sotto i denti faceva ammutolire mia madre che mi rimproverava continuamente. Mi guardava con astio e dalla bocca tracimavano parole aspre, l’ordine di stare buona, in punizione, buona, mentre bisbigliava alle sue amiche che ero una bambina insicura, lei era certa che non la sentissi. Sedevo composta e obbediente in compagnia dei miei piccoli martiri. Ero vittima di una malattia fantasiosa, l’avevo creata io, come un amico immaginario.

Gli amici in carne e ossa erano i bambini del vicinato. Il parco in cui ci incontravamo era una distesa di sterpaglie alte, tanto tenaci e inopportune da provocare qualche rogo nelle stagioni più torride. Lo scivolo diventava una piccola tortura, con la superficie metallica ad arroventarsi al sole, l’unica ombra era quella di un grande fico. Un albero che si piegava alla nostra prepotenza infantile e ci reggeva tutti quanti sui grossi rami come le braccia di un uomo forte. Quando il caldo ci sfiniva abbandonavamo la frenesia delle corse, schiene contro tronco e soldatini sparsi tra le foglie e le formiche.

C’erano almeno tre bambini che reclamavano la paternità del fico, sostenendo di averlo piantato per la prima festa dell’albero alle scuole elementari: il figlio di un agricoltore che si chiamava Luigi, i gemellini Filante e una bambina di nome Giulia, ma in fondo io credevo ai Filante, perché loro erano in due a ricordare di aver aiutato la maestra a piantarlo, non potevano mentire entrambi.

Il fico ci accoglieva fino ai giorni in cui il sole appassiva inaspettatamente presto e i tramonti si facevano precoci. Si rientrava tutti a casa alla stessa ora, prima che le ombre diventassero più alte di noi, mentre le madri gettavano gli sguardi inquisitori a penzolare dalle finestre. In ordine sparso si imboccavano i portoni e gli androni dei palazzi risucchiavano i risolini infantili, varcata la soglia delle case si ritornava a rispettare la precisione dei posti assegnati a tavola e la metodica doccia prima di andare a dormire. Mia madre mi grattava con la spugna ruvida, sul fondo di smalto della vasca restavano tracce di quel marrone sbiadito dal bagnoschiuma, lavava la patina zuccherina di frutti maturi che mi appiccicava i bordi della bocca, mi insegnava come lavarmi i denti, mi inseguiva per pettinarmi. Sputavo la schiuma nel lavandino come se fosse fiele, disgustata, guardavo le sue pupille piccole e lei annuiva, molto bene, molto bene mi diceva.

Facevo tutto con precisione, ricalcavo i suoi passi senza uscire dai margini scuri e ricopiavo i suoi gesti. A fine giornata ero stanca di quel gioco, dentro il letto infilavo subito le mani in bocca, lei mi sorrideva con la coda dell’occhio prima del bacio della buonanotte, mentre faceva in modo che non restassero pieghe sulla coperta.

Tratteneva l’ampiezza dei sorrisi per occasioni speciali, come quando mi mettevo da sola i vestiti abbinati e facevamo le sfilate per andare in chiesa e inginocchiarci sulle panche davanti all’altare. Se mi si impigliavano le calze nelle schegge di legno sdrucito stringevo più forti le mani in preghiera. Poi se mi alzavo e se le vedevo filate mi arrabbiavo con Gesù. Le maglie slabbrate dei collant sembravano strappi della pelle, finti, come quelli sul costato del crocifisso, sanguinolenti di pittura un po’ scrostata. Restavo appesa allo sguardo della statua, sembrava che disprezzasse la mia fede guardando da un’altra parte, io abbassavo lo sguardo mentre mia madre mi ripeteva che dovevo stare più attenta.

Quando mi metteva a letto la sentivo muoversi nel silenzio pesto della casa, chiamavo per un bicchiere d’acqua e per proteggerla dalla mano nera che immaginavo la inseguisse da una stanza all’altra. Avevo di queste strane idee in testa, presenze malefiche che colmavano l’assenza. A casa c’eravamo io, mamma e gli spiriti della paura che inciampavano tra le costruzioni e i giocattoli dimenticati sul pavimento.

Le colpe microscopiche, roba spicciola, diventavano onde di vergogna da non chiudere gli occhi, tanti mostri si animavano e minacciavano di graffiarmi da dietro le tende, dove si nascondeva a volte anche il fantasma di mio padre, insieme a Gesù, sceso dalla croce per controllare che mi stessi comportando bene. Era tutta una congrega di supervisori.

Contavo i passi di mia madre e poi i sospiri, lei si accorgeva che ero sveglia, diceva dormi e io dormivo. Mi diceva sveglia e mi svegliavo, seguivo l’andamento delle sue richieste di obbedienza con la compassione di un animale riconoscente, non volevo farla arrabbiare mai perché il suo sguardo prendeva quella serietà da diavolo che mi terrorizzava. Eravamo sole e il suo cambiamento d’umore era quiete e tempesta minacciosa. Le mamme degli altri bambini urlavano dagli androni. Dagli spifferi entravano voci grosse che accarezzavano i pomeriggi; mia madre era capace di un silenzio che faceva impallidire. Un giorno per un intero pomeriggio non mi rivolse la parola perché non trovavo più il suo rossetto preferito con cui avevo giocato. Avevo solo sei anni, ma ricordo di aver pensato che forse qualche spirito le aveva rubato la voce come nei cartoni animati. E che era colpa mia se scansava lo sguardo, perché ero tanto cattiva da farla incattivire. Poi si riaccendeva, come le lampadine riprendeva calore in fretta, parlava e canticchiava, resa frizzante da quella sensazione di pentimento che la portava a una cortesia improvvisa. Allora mi portava fuori, al giardino vicino casa, e stavamo sedute insieme a osservare i frutti che maturavano, il preludio alla fine definitiva della stagione.

A quell’età mi divertivo a inseguire le lucertole per portagli via la coda. Mi lanciavo all’attacco, afferravo i rettili con dimestichezza e tenendogli ferma la testa tiravo la coda forte, poi li lasciavo andare. Le lucertole scappavano e restavo a guardare le codine agitarsi. Me ne dispiacevo, ma poi lo volevo rifare. Mi sentivo scomposta, mia madre si ostinava a non tagliarmi i capelli che io desideravo corti, si appiccicavano sulle tempie sudate e poi si popolavano di nodi e polline di fiori come un covo di api. Prima di uscire elencava il decalogo delle raccomandazioni: non sudare troppo, non tornare a casa sporca da sembrare una capra, non rincasare tardi, non attraversare la strada senza guardare.

Dovevo essere sempre precisa e rigorosamente intera, invece sperimentavo la separazione e la distanza dal nido, ero come un uccellino che cadeva continuamente, con le ali spezzate correvo al riparo arruffata e scontenta.

Mia madre mi lasciava uscire da sola, ma guai se rientravo con qualche ferita. Me lo diceva già innervosita, mentre mi ostruiva la porta, se cadi ti rialzi e non venire da me a piangere. Se ti fai male poi ti picchio. Arricciava le labbra e le rughe sembravano intagliate con un bisturi leggero.

Ricordo quella volta che una mia sbucciatura molto profonda le provocò così tanto sgomento che non si avvicinò neanche per disinfettarmi. Mi disse vai sul divano, stizzita dai singhiozzi che cercavo di appallottolare in gola. Stavo sul divano a piangere e mi guardavo il sangue, a grumi screziati di ghiaia fina e terra, quando mi sentii stritolare da un bruciore forte divampato all’improvviso. Aveva preso una bottiglia di alcool denaturato, quello per pulire i pavimenti, stava spremendo la bottiglia da lontano e uno zampillo mi arrivò dritto alla ferita sul ginocchio. Circondai il suo impassibile contegno con alcune urla che volevano essere liberatorie. Ma più strillavo più mi sentivo in trappola. Non mi avrebbe liberato dal suo silenzio intransigente.

Per molti anni il giardino del fico era la voliera in cui potevo sperimentare voli pindarici verso un orizzonte proibito. Tra le corse in bicicletta e gli sgambetti catturavo l’esalazione dei fiori nei balconi che in primavera si aprivano al bacio umido della sera.

Quando passavo i pomeriggi al giardino mia madre mi teneva sotto controllo, mi metteva a fuoco con occhio di lince, scostando la tenda della cucina. Io mi scordavo che stavo nel suo mirino, correvo, raggiungevo gli altri sparsi come biglie intorno al fico, a torturare i formicai.

D’estate sentivo l’afa dell’estate impossessarsi di me fin dove non avevo il coraggio di capire. Era come se la vegetazione languida all’alba e i campi di grano nudi esposti allo scottante sforzo del sole giocassero con il mio corpo, un terreno che stava conoscendo una nuova stagione.

C’erano alcuni di noi con sfregi e cicatrici ben visibili, sporchi di terra, se ne fregavano, non si scomponevano mai, non potevo fare a meno di trattarli con reverenza.

Luigi era un ragazzino dalla carnagione scura come il cuoio, scuri pure i capelli e gli occhi, che non si posavano mai senza indietreggiare, in un continuo sfarfallare e inseguire tiri di palloni. Portava quasi sempre delle magliette slabbrate sull’orlo, come se avesse avuto la meglio su qualcuno che lo tratteneva, inoltre aveva la spiacevole abitudine di sputare continuamente a terra. Forse era per quello che a mia madre non piaceva. L’avevo capito perché era l’unico bambino di cui mi aveva chiesto informazioni, vacillando sulle domande, mentre io mi mangiavo le unghie e parlavo delle cose efferate che Luigi faceva, come quella volta che aveva spiaccicato una rana con un sasso.

Io scovavo la sua bellezza anche nella sporcizia intorno agli occhi e nell’insistenza con cui la peluria sul labbro lo rendeva severo e ridicolo. Ma di questo non parlavo a mia madre.

Un giorno rientrai a casa, era primavera inoltrata e le giornate si stavano generosamente addolcendo, allungando le ciglia ombrose dei pioppi lungo il viale. Posai lo zaino sul divano e andai nella mia stanza. Mia madre rassettava con foga. Quel fermento a fine serata, che faceva sbattere i pensili e scuotere tovaglie come se tutto ancora dovesse iniziare, mi eccitava e mi tranquillizzava al tempo stesso. A un certo punto la sentii strillare, con imprecazioni e parole che dovevano essere proibite e alzai la testa dal letto su cui mi ero distesa, afflitta da un capogiro di panico. Con i passi traballanti arrivai in cucina e vidi che nelle mani reggeva la piccola testa di un uccello morto. Era la stessa che Luigi aveva mostrato a tutti nel giardino, muovendo per aria quella testolina intrappolata, stretta tra le dita lerce, mentre noi seguivamo il movimento con gli occhi fissi, come ipnotizzati. Era una beccaccia, disse con voce sicura, l’aveva riportata il cane di suo padre quella mattina stessa, da una battuta sulle colline.

Il volatile senza corpo spuntava dalle mani di mia madre con il becco semiaperto, lungo e sottile, le piume schiacciate, bulbi oculari perfettamente rotondi come piccoli granuli. Disse che cazzo è questo. La mia risposta era infilzata tra le mascelle serrate, ma dissi mamma me l’ha messo Luigi, io non c’entro niente. Ma che schifo, lo disse impastando parole e insulti sussurrati. Guardai il collo spezzato, le piume rotte e sentii l’odore del sangue rappreso, quello che fanno gli animali feriti, la stessa puzza che fa il sudore quando si ha paura. Bastardo da quel giorno mi sembrò una delle parole più terrificanti. Inqualificabile, capace di materializzare l’incubo di mia madre che perde la sua compostezza mentre butta in malo modo l’avanzo di un uccellino dentro la busta della spazzatura e la richiude con due nodi stretti, prima di uscire sbattendo la porta.

Io restai in cucina, isolata, con una piccola pietra di odio nello stomaco, senza riuscire a muovermi. Mi ritornava il pensiero di quella testolina decapitata, pensavo alle piume fredde e agli occhietti vitrei come perle dentro la busta della spazzatura. A mia madre che macchiava la sua candida finezza con parole colorite, senza ritegno. Mi presi un bello spavento, mi sedetti con le gambe accavallate ad attendere il suo ritorno, odiando intensamente Luigi con il pensiero. Il mio volto si era indurito in una smorfia che non avevo scelto, il collo tirato come l’elastico di una fionda. Le dita tra la lingua e gli incisivi, a mordere forte. Approfittai del silenzio per parlare a me stessa e in quel momento pensai di odiare Luigi fortemente. Lo odiavo così tanto che l’immagine di quell’avanzo di animale si confondeva con altre proiezioni immaginarie, in cui Luigi inciampava su ostacoli improvvisi e i suoi denti si scheggiavano battendo su una pietra e le sue ginocchia si scorticavano sull’asfalto lasciando brutti segni sulla carne aperta.

Mentre ero intenta ad augurargli il peggio mia madre era rientrata, si avvicinò al tavolo dove ero seduta con la testa bassa, in penitenza. Mi disse che da quel giorno per un po’ di tempo sarei andata al giardino del fico soltanto la domenica dopo la messa. La sua voce aveva un’oscillazione di inquietudine, la carezza che mi diede, sulla testa stordita da una giostra di tristezza, mi fece piangere e scusarmi, come se dovessi ammettere una colpa. Disse non voglio che frequenti certa gente, con un’affermazione di vastità che sembrava abbracciare tutte le palazzine del quartiere e quelle molto oltre, dove la campagna soggiogava l’asfalto.

Quella sera stessa mi venne la febbre, andai a dormire presto, non era finita, mia madre se la prese con me. Diceva che avevo preso freddo in giardino perché mi ero attardata mentre si alzava il vento. Mentre mi metteva le pezze umide sulla fronte pensavo che le avesse fatte congelare apposta, per dispetto, le sentivo ardere sulla fronte come un unguento balsamico. Stava estinguendo i lasciti della giornata, avrei fatto sogni vuoti. Mi lasciò a tentare di afferrare un lembo di stanchezza per rimboccarmi gli occhi e dormire. Ma fremevo. Con la mano frugai nel calore della mia pancia, gli intestini sobbollivano in un brodo di febbre, scottavo in ogni angolo, fino a quando non arrivai a quello più profondo, un punto in cui non c’era più superficie, un vuoto in cui mettere a bada le dita. Quella notte le unghie avevano un sapore salmastro e l’esaltazione nascosta di aver scoperto una dimora che ricordava l’umido della bocca e provocava in me una pace che placava i nervi.

D’estate si compiva la magia: dall’oggi al domani scomparivano le spighe dai campi. Tra i proprietari dei trattori c’era il padre di Luigi, che passava dove gli steli si erano radunati uno accanto all’altro come una schiera di cadaveri dorati. Aveva grandi baffi scuri ed era basso, intagliato con muscoli tonici, nelle rughe i settant’anni della chiesa del paese e nei polpacci la giovinezza di un fascio di spighe. Provvedevano alla mietitura in luna piena. Nelle prime sere di falce crescente si vedevano luccicare le balle di fieno nel terreno sgombro.

Germogliavo. Il corpo seguiva ritmi che non prevedevo. Ero magrissima, nonostante non mi mancasse l’appetito, spalle piccole, ginocchia appuntite, ossa bene in vista. La durezza del mio corpo aveva la meglio ma non sull’affiorare spontaneo della peluria sotto le ascelle. Mi contrariava terribilmente. Qualche mese prima l’incavo era un rifugio di pelle vergine che accarezzavo per sentire l’aroma pieno dei primi sudori maturi.

Erano cadute alcune restrizioni di mia madre, ma restava quell’imposizione di confini da rispettare, oltre i quali non era guerra di trincea ma bombardamento a tappeto di punizioni e ripicche. Per la cresima dovetti mettermi i vestiti che lei aveva scelto.

Mentre i seni si facevano sporgenti rivendicavo gli sguardi intorno, ma avevo solo i suoi occhi puntati addosso. Quella sensazione sgradevole di non essere a sua immagine e somiglianza e di meritare l’inferno. Stammi a sentire, non perdere tempo dietro a certa gente, l’affermazione si era ristretta piano piano, fino a escludere tutti tranne Luigi. Stammi a sentire, e io annuivo coma una bambola.

Tentavo l’espansione dei miei confini, uscivo e mi tenevo lontana dalla zona di controllo sotto la finestra di casa. Vagavamo per il paese, si andava sulle gradinate del campo di calcetto per fare sera lontano dagli sguardi avvizziti delle comari. Ma alla fine si tornava sempre al giardino del fico. Sentivo di dover aggiungere sempre qualcosa. Una serie di accessori e ritocchi mi erano necessari per adattarmi a quel moto di ribellione accorato, che poi risultava penoso su alcuni corpi ancora piccoli. Ciocche tinte di colori accesi, braccialetti sintetici, rossetti lucidi. Non oltraggiavo il mio limite, lo sottraevo il più possibile. Le ragazzine della mia età continuavano a stendere strati di smalto sulle unghie. Per imitazione inversa io mi ancoravo saldamente alle mie, per restare a galla non gli davo il tempo di spezzarsi. Erano anni in cui ribollivo di pensieri che si confondevano evaporati in una nuvola rotta dagli schiamazzi e dai tonfi da una parte all’altra del giardino, di giochi ancora troppo seri.

I brandelli di caldo asciugavano la saliva nella bocca. L’eccesso di calore aggiunse pienezza ai fichi succosi, crebbe una fame atavica da consolare direttamente staccando i frutti a piene mani. I piccoli semi scricchiolavano tra i denti. Ancora non avevo perso la mia solita abitudine ed ero di pessimo umore ogni volta che portavo l’attenzione sulle dita tozze, amare di latte di fico.

Un giorno, mentre agosto si stava disfacendo, seduta sulla panchina surriscaldata mi sentivo arrossire nella calura. La sentivo salire dalla terra, sulla suola delle infradito e venirmi dentro. Mi vergognavo di sudare così tanto, la fronte madida e la canottiera con le strisciate palesi di un’abbondante traspirazione, chinando un po’ il collo mi annusavo furtivamente l’odore sintetico del reggiseno imbottito e intriso dell’acquetta che si formava sotto le pieghe dei seni. L’odore ci qualifica, ci fa assomigliare agli animali, ci avvicina alla loro cattiva sorte, alla loro peggiore reputazione. Ci fa diventare bestie, sentire quel fetore selvatico e atroce. Lo sentivano anche gli altri, ero convinta che lo sentisse anche Luigi, era lui che scatenava quelle conseguenze disastrose su di me. Non lontano dalla scia del deodorante c’era quell’acre sentore che mi assaliva insieme a tutti gli altri tradimenti del corpo.

Era successo nell’arco di un tempo in cui il fico aveva perso molte volte i suoi morbidi figli. Mi feci sopraffare da alcuni tafferugli verbali che si erano conclusi a colpi di ciglia aguzze sbattute e toni di voce sostenuti. Luigi mi stuzzicava come faceva con gli insetti quando eravamo piccoli.

Un giorno che correva a petto nudo per il giardino mi sfilò l’elastico dei capelli e tutto quello che avevo cercato di arginare fino ad allora prese il sopravvento. Cercava di scappare lontano e a ogni passo seminava la sfida con ammiccamenti. Le palpitazioni sussultarono a colpi di extrasistole, come se un pesce si stesse dibattendo dentro il petto. Presi un bastone per colpirlo, ci riuscii e la punta di legno penetrò la carne, quell’avvallamento tenero tra la spalla e l’ascella. Dovevo temere la sua reazione ma quello che mi bloccava non era il terrore dello scontro, ma l’angoscia dell’incontro. Si ricompose avvicinandosi di nuovo, troppo, vidi un buco da cui scivolava un rivoletto di sangue, sentii un freddo bestiale. Mentre tutto questo mi scuoteva lui mi strinse. Il suo abbraccio teso mi avvolse in una contrazione di muscoli, mi scansai, ma ormai eravamo vicini. Lasciai andare ogni opposizione, si era sciolto qualcosa e anche se tremavo ancora ci baciammo con le lingue dense di umori che si erano rimescolati da tempo. Ormai entrambi puzzavamo dello stesso sudore molesto.

Mi aveva battuto. Fu facile vincermi, non avevo ragioni per lottare, atterrita da quel desiderio che per la prima volta e per molto tempo ancora mi avrebbe tenuto lontana dal vizio di torturarmi e mi avrebbe portato oltre il limite dell’obbedienza.

Le mani non stettero più ferme in quei mesi, carezze, dita madide di secrezioni personali da sniffare a fine serata, tirando su con il naso l’odore di noi dalle narici aperte, con la fronte sul cuscino e i succhiotti ben nascosti da mia madre, con strati spessi di fondotinta a buon mercato.

L’amore degli adolescenti non ha nidi, ma fughe continue, spaventi belli e buoni e luoghi sordidi, alle volte incantevoli, a ogni caso perfetti per promesse scontate di cui anche Luigi abusava. Ti porto a conoscere i miei. Ti porto a caccia con me, insinuava. Ti vengo dentro, la minaccia di piantarmi un seme in grembo se non gli avessi restituito la fertilità che mi aveva regalato.

A furia di esplorazioni conoscevamo tutti gli anfratti della zona, quelle parti del paese ricoperte da arbusti antichi e fetidi di orina di gatto selvatico. Dimenticavamo il giardino del fico e le fossette dei nostri amici. In quei posti ci andavamo soli. Non c’erano zone vergini per noi, ma quella che preferivamo era il vecchio deposito dell’esplosivo con cui avevano disostruito le vene del sottosuolo, una piccola grotta scavata a mani nude con picconi adunchi branditi dalle braccia dei nostri nonni oppressi dalla silicosi. In quella grotta ansimando facevamo vibrare le gocce di umidità che pendevano dal soffitto granitico, lì potevamo arrivare a piedi, e restare nudi su un plaid a fingere che quella caverna non ci avrebbe mai rigurgitato, che mia madre era un fantasma come mio padre e che eravamo gli ultimi rimasti sul pianeta, dopo che fuori di lì un ritorno a fuochi ben più grandi dei nostri aveva incenerito tutti gli abitanti del nostro e di tutti gli altri paesi.

Mi piaceva stare sopra di lui, sfregavo con le ginocchia contro la poltiglia sotto di noi, contro humus, pietrisco, acquazzoni straripate nel sostrato del terriccio scuro su cui riversavamo le impronte di natiche piene. Sotto le unghie restava il suo sapore di braci, il gusto sapido di una conquista. Leccavo i polpastrelli e quel che era rimasto di lui, il retrogusto di licheni e mosto. Feci la promessa che non mi sarei mai più azzardata a strapparmi le unghie a morsi. Un divieto autoimposto che eseguiva un ordine interno di fedeltà, ma non a me stessa.

Anche quell’anno arrivò l’autunno e con la sua prepotenza fece piangere a dirotto le grondaie, non si poteva stare in giro a inzuppare le ossa, non si poteva fottere senza amalgamarsi per bene con l’erba pastosa che rinverdiva e copriva gli accessi alle stradine acquattate, quelle in cui non avrei mai dovuto mettere piede e che da mesi non avevano più memoria delle nostre suole. Erano evaporati i sospiri e adesso si stava attizzando la noia. Luigi potava la radura dei silenzi con qualche telefonata frettolosa, mi teneva imbrigliata. Si stava chiusi ognuno nella sua casa. A volte viaggiavo con mia madre per andare a scuola, salivo in macchina con il retrogusto di caffellatte amaro e non parlavo, adesso ero io che la facevo impallidire senza proferire parola. Non mi controllava più, sfrenata nel travaglio dell’adolescenza. Dentro il petto avevo un cecchino appostato per fare strage a ogni obbligo del nemico.

Ammassati sull’autobus si rientrava al paese, non restava molto altro da fare di pomeriggio, anche il bar ingigantiva quel senso di claustrofobia. Pareva la stalla di una gran quantità di stanchezze messe insieme, omuncoli troppo pesanti e lenti per tornare a casa a ripulire i fucili e scoparsi le mogli. I campi resuscitavano, non c’era da stare allegri, colate di tempeste da tutte le direzioni.

Luigi non passava più a prendermi, il motorino parcheggiato dentro il garage, niente più vapori dalla marmitta incandescente a segnare la traiettoria dei nostri amori sfuggenti. Non ci veniva al liceo, anche l’anno prima stesso andamento, andava alla scuola professionale, dove tra scintille multicolore smerigliava superfici dure, incidendo tagli netti e profondi con quelle mani che seccavano dentro i guanti in maglia d’acciaio. Polpastrelli sempre più grinzosi mi irritavano il clitoride quando ancora trovavamo un brandello di tempo per stare insieme e toccarci e sfinirci e abituarci a svuotarci piano piano, travasando gli entusiasmi dentro i contenitori dei nostri orifizi. Aspettavo il fine settimana, il giorno del signore. Nelle case le pentole dei sughi rigettavano aria di festa e tutti si guardavano in faccia per capire cosa dovevano fare. Quattro sorrisi in croce intorno a una tavola.

Luigi andava a caccia la domenica, schizzava pallettoni a destra e manca assorbendo tutta la cattiveria della vegetazione più impervia, fatta di spine che ti rovinavano la faccia. Se non stavi attento ci diventavi cieco, mentre correvi quelle di acacie ti si potevano conficcare nei bulbi oculari e allora tutti concentrati, con le canne puntate alle tempie del vuoto, impettiti. Quella domenica suo padre con le pupille agghiacciate dall’attesa lo spronava ad assomigliargli ancora di più.

E lui si inorgogliva e prendeva la mira e si dimenticava per un attimo della saldatura dei metalli, delle leghe. Il rumore di una frana, di pietre sbattute e ruzzolanti, la martellante corsa della fuga. L’animale scendeva e spruzzava la paura dal culo dietro ai cespugli che scrocchiavano travolti dalla disfatta, tutto partecipava al movimento: le zampe, i muschi, la foschia, tranne gli uomini. Trattenevano il fiato, tutti immobili tranne uno, intento a controllare con rigore un gesto millimetrico della palpebra, dimenticando i pochi legamenti sottili che ci univano ancora, e comandando un dito piegato sul grilletto: uno sparo. Restavano per terra i ricordi tagliuzzati, legacci strappati, estirpati alla matrice o forse bruciati con la cotenna del suo primo cinghiale abbattuto. Una grande festa per tutto il branco, pacche sulle spalle e spari in aria, senza senso. Salirono sui fuoristrada, tra la puzza di scarponi fradici e la prima birra stappata a fermentare negli interstizi tra le carie.

Lo andai a stanare nella cantina dove spuntinavano, la lampadina a incandescenza pendeva dal soffitto gocciando a terra poche scariche di luce, riverberi sufficienti a intravedere sul pavimento una sequela di sagome, una sfilza di feti. Piccoli cinghialetti umettati di placenta, a scolare tracce ematiche sul telo di plastica ben steso, con i musi non ancora formati. Figli della cinghialessa, esemplare notevole, portata in processione per la via centrale sul cofano delle macchine, con una grossa arancia infilzata nella bocca sporgente e clacson a raffica a sferzare l’aria di istinti bassi e corpulenti. A guardarlo così ricoperto di setole scure e ingrugnito quel cinghiale non si sarebbe detto che era una femmina, infatti non si diceva e quella parola la tenevano abortita nella fodera del coltello, mentre lo scuoiavano e praticavano un taglio dritto per farla sgravare con un artificio.

Si congratulavano con il più giovane e scaltro di loro che non aveva perso il colpo. La cantina esalava di vino solforoso lasciato a imputridire sotto le travi, gli aliti pesanti degli uomini si sommavano alle zaffate di olio di motore dei macchinari deperiti agli angoli in penombra.

Luigi stava di spalle. Su un tavolo ricoperto di una tovaglia cerata preparavano i condimenti per la carne, lunghe frasche di erbe aromatiche da affondare in abbondante olio extravergine d’oliva. Su un altro tavolo stava la cinghialessa squartata, ripulita dalle interiora, a ventre freddo e spoglio esposto ben in vista. Mentre si riempivano bicchieri di plastica del vino migliore gli uomini misero a fuoco la mia presenza e mi invitarono a bere elargendo sorrisi etilici. Non feci in tempo a rispondere che dovetti indietreggiare, Luigi si era precipitato addosso a me, mi spinse fuori, ma lo fece con un gesto così ambiguo da sembrare semplicemente uno che con improvvisa baldanza cercava di mostrarmi quante altre cose sorprendenti potevano esserci lontano da lì.

Stringendo con la forza della mandibola una lama immaginaria trovò lo spazio per sibilare la sequenza di parole che mi cambiò in un minuto i connotati, che lì non ci facevo niente come in tutta la sua vita. Me lo diceva davanti a quella casa nel mezzo del paese, ma era come se fosse rimasto prigioniero dentro a quella grotta da solo, e se ne uscisse adesso con questa rivelazione, eremita della sua disperata ignoranza che lo reclamava a spennare pernici e arrostire succulenti embrioni.

Ci guardammo a lungo. Con un lamento soffuso le mie lacrime cominciarono ad affiorare e con rintocchi di pugni sul petto le liberai tutte a formicolare sulle guance. Mi afferrò per i polsi e strinse tanto che le mani sbocciarono a palmi aperti, come a ricevere qualche benedizione che dovesse discendere dal cielo. Lo guardavo orante mentre quelle poche parole, che non c’era tempo da perdere per noi, bruciavano e le carni degli animali marcivano abbandonate alle mosche.

Stavamo uno di fronte all’altra su quel marciapiede squallido e lui mi stingeva ancora i polsi così tanto da volermi rimpicciolire e farmi diventare una pallina, una biglia, una pallottola da sparare in aria, senza senso. Gli sputai in faccia e corsi via, lontano dalla carcassa di quello che ero convinta fosse l’amore. Correvo, scoordinata e rinvigorita dal tutto quel dolore che avevo succhiato, immaginavo gli uomini che si ciucciavano le dita dopo aver lasciato sciogliere sul palato la carne tenera dei feti già grassocci, abbrustoliti e ben salati da far straripare l’acquolina in bocca e tramutarla in brama bavosa.

Il paese minacciava di scomparire nella nebbia. Non avevo conosciuto i suoi genitori, per me suo padre sarebbe rimasto una sagoma all’orizzonte e una voce nel tardo pomeriggio che annunciava un’assenza difficile da colmare. Avrei atteso l’estate per vederlo ancora spezzarsi la schiena e gli avrei espresso l’augurio silenzioso di seppellire il figlio tra i solchi. Mi consolavo a escogitare torture fantasiose, le strisce di carne tagliate dalla schiena abbronzata e cosparse di sale come un’antica memoria di strazio mi riportava alla mente. Io godevo di tutto il male che poteva coglierlo. Io ricordavo tutto il male che era stato fatto, sulle stradine pietrose profanate dagli scarponi, negli anfratti di macchia segnati a colpi di bastoni e rutti dagli uomini in tenuta mimetica. Che non se lo dimenticassero le frane di portasene via qualcuno, le grotte di divorarli, gli animali di incornarli.

Ripresi a camminare lentamente, avevo il vestito buono, mi chiedevo se mi avrebbero scambiata per una bambina che andava a messa, con la gonna lunga e la bella giacca nera, ma in realtà sembravo anche più grande di quell’età così insignificante che mi portavo appresso e mi faceva male, troppo stretta come le scarpe. Me lo aveva detto mia madre di stare lontana da certa gente.

Per tornare a casa dovevo passare per forza di fronte al fico, era così scarico di frutti e foglie che peggiorò il mio umore, sperai che anche quello scomparisse sotto un fulmine improvviso e quando mi trovai di fronte alla porta, lanciai un’occhiata in fondo al viale, dalla parte del centro abitato, e desiderai ardentemente che tutto il paese venisse cancellato, soffocato dal vomito di un vulcano emerso all’improvviso dalle cavità deflorate della terra.

Mia madre era seduta sul divano, impeccabile, la pelle perlescente, strati di fondotinta e ombretto azzurro, gli occhi chiarissimi che fissavano lo schermo. Si girò a guardarmi, avevo tanto trucco che colando mi aveva solcato le guance e si era diluito nel viola delle occhiaie. Era bellissimo guardarla, mia mamma, adesso mi faceva un bell’effetto quell’espressione gentile e indifferente, la porcellana delle labbra e il disegno del naso e tutto quello che io mi ero presa alla nascita per diritto di superficie. Restai a guardarla anche io, ma quando spense la televisione i suoi capelli smisero di luccicare e mi spaventai, si alzò infilzando le pantofole arancioni disadatte al tailleur grigio fumo e passandomi di fianco trascurò il mio sguardo ed entrò in bagno, potevo sentirla aprire e sbattere gli sportelli del mobiletto dove teneva le sue cose, mentre chiudevo la porta della mia stanza, sentii anche che faceva pipì spudoratamente senza nemmeno preoccuparsi di socchiudere, senza un minimo di riservatezza.

La pioggia aveva atteso il mio rientro prima di criticare aspramente tutto lo spazio concesso all’estate, e anche se le finestre erano serrate, le tapparelle abbassate, i doppi vetri non accudivano a soffocare lo scroscio pesante. Le domeniche con la pioggia mi facevano paura quando era piccola, era come una punizione, ti confinavano in stanza a guardare i cartoni animati.

Mi veniva da piangere come allora, mentre dietro il vetro appannato della finestra guardavo scendere dalle strade dei quartieri alti il fango e i detriti, un fiume dove le fogne esplodevano e confluivano. Non lo vedevamo, ma la nostra merda stava arrivando a sommergere i campi. In primavera tutti i nostri escrementi e pisciate non ci sarebbero state più, decomposte, ma chissà, sarebbero tornate su come un rutto acido, avrebbero concimato il nostro grano e il pane ci avrebbe ingrassato con tutto quello che non eravamo riusciti a trattenere.

Dentro il letto volevo stare, così, mollare gli ormeggi e stare nella tempesta, non governare più niente e dormire, almeno senza sogni e senza desideri di sevizie. Lasciare quella ciurma di cacciatori, mia madre, quelli che frequentavo ai tempi del giardino del fico a prendersi in faccia le ondate di maltempo e annegare nell’acquazzone.

Il letto era asciutto mentre tutto fuori si lasciava inzuppare dal nubifragio. Il signore si era arrabbiato e aveva mandato il diluvio, il letto era un’arca e c’ero solo io e i fantasmi della cinghialessa e dei feti, che adesso erano vivi e stavano per la stanza, a scaldare lo spazio, un pelo ispido di setole dure e bruciacchiate, me li sentivo venire vicino ai piedi, esalare un profumo di ginestre, e che restassero lì, ci saremmo salvati solo noi. Statevene buoni e fatevi la cuccia tra le mie scarpe e i calzini sporchi. Ero stanca, distesa sulle lenzuola, un grugnito di amarezza e del tormento di non trovare consolazione. A me non restavano che quei gesti che leniscono qualsiasi supplizio, con le gambe socchiuse misi la mano dentro le mutande e rovistai cercando di dissipare il dispiacere incastonato nella crepa, nella spaccatura definitiva dentro di me. Nel ritmo di un continuo sollecitare e attendere si ingrossavano le acque là fuori. Tamburellava contro il soffitto la pioggia e più forte mi toccavo e sentivo che con le prime falangi arcuate, lì nel punto esatto, con più insistenza, un caldo patimento si trasformava in un bruciore penetrante delle unghie non tagliate che spellavano. Scalpitava la mia mano come lo zoccolo di un cavallo che vuole correre per raggiungere la linea d’arrivo, la battigia soffice di arena, l’intrico della boscaglia e tornare a inselvatichirsi per sempre e senza il ritegno delle briglie.

Quando me le portai alla bocca, quelle dita affaticate, finalmente, dopo il tempo che erano state lontane dalla mia lingua, dall’imbocco di un tunnel di gengive smaniose, sapevano di sangue. Mi addormentai con un alito di ruggine e una macchiolina rossa sulle mutande. Quando mi risvegliai gli zampilli di pioggia non li sentivo più. La pelle sfregata e turgida palpitava, le mucose graffiate rispondevano con vampate e pizzicore. Il mondo era oltre la barriera di legno di noce delle porte, tante porte. Sentivo che stava arrivando l’inverno, me lo dicevano le ossa, sotto sotto lo strato di pelle erano ballerine instabili, addolorate dal decesso del sole.

Piansi sul letto ancora un po’, grattando alla rinfusa sul materasso come un gatto indiavolato. Gemiti, simili a quando si ritrovano i felini scompigliati dietro i cespugli di lentisco a bordo delle stradine di campagna, quelli abbandonati o smarriti che si sono spinti troppo lontano e si procurano ferite sotto le zampe tra i rovi. Non ero chiusa a chiave, la dimenticanza era uno squarcio aperto nell’intimità, una maniglia cigolante sotto il peso di una mano, uno spiraglio tra le palpebre con cui incrociai l’occhiata di mia madre e il suo ancheggiare delicato. Spostando con le pantofole i vestiti sulle piastrelle del pavimento, prese posizione sullo sgabello nero accanto al letto e sotto il silenzio di penombra. Le mani incrociate strette per pregare di non perdere il coraggio di stare lì, per ancorarsi e non perdere la bussola in quel moto ansioso che l’aveva condotta fino alla mia deriva, ero stupita, anche lei era sopravvissuta alla burrasca.

E d’improvviso sciolse le mani e le sue braccia divennero grandi, un’apertura molto ampia, una strana composizione di postura: abbraccio. Mi ritrovai spiaggiata sul suo petto, scombinata, rimpicciolita e il sentirmi una bambina era così spiacevole che piansi ancora, mi sembrava proprio di aver toccato il fondo, così prostrata sulla sua pietà che sapeva di talco. Mia mia madre mi allontanò per guardarmi meglio, prendendomi le spalle con mani forti come artigli di falco, una stretta insospettabile, che oltre a farmi sentire una fitta dove stringeva mi iniettò un vigore che mi ricompose. Mi prese le ciocche ammollate nelle lacrime e le lisciò, portandole dietro le mie orecchie, una tenerezza aspra le faceva tremare l’angolo della bocca senza alcuna sbavatura di rossetto. Sopra la scrivania, segretamente, appena entrata aveva posato la boccetta del suo smalto preferito. Poco dopo stavamo sedute vicino alla scrivania, fianco a fianco, accozzaglia di disagio, vicine come non mai e senza troppo pensarci, per non schivare quell’unico momento in cui non si stava rompendo niente. Anzi, tutto sembrava integro e si sentiva la fatica maestosa fatta per incollare i pezzi e le parole una dietro l’altra, senza farle cadere. Parole di cotone sopra tagli, come lenzuola sopra corpi morti.

Le mie mani posate sul ripiano di legno bianco lucido, le ginocchia strusciate contro il tessuto della gonna di mia madre, sembrava di accarezzare i fantasmi della cinghialessa dal pelo brizzolato e dei suoi piccoli. Le unghie si raffreddarono all’improvviso, a contatto con il pennellino intinto nella vernice fresca e vermiglia, un respiro, una passata, un soffio per farlo asciugare, alito che spargeva un conforto ben rifinito. Quelle parole, tesoro mio te l’avevo detto io, e un sospiro rintanato dietro a un sollievo, come di avermi ritrovato finalmente libera dopo un rapimento. La sua mano tratteneva la mia, schiacciata e pressata dalla sua volontà di esserci e ribadirlo riga dopo riga con un colore bello scuro e squillante, due mandate perché fosse spesso abbastanza da non scalfirsi per giorni interi, vernice a lunga tenuta. Io ero eccitata dalla paura che uscisse fuori dai contorni, lei, che da piccola mi aveva inculcato il trauma di colorare dentro i margini, di scrivere in bella grafia senza uscire dal rigo. Quando si alzò sentii il rumore delle sue giunture gracchiare, in piedi sembrava alta più di quello che meritava. Ma da quella altezza si chinò su di me, rallentò poco prima di posare la sua bocca sulla mia e sentii dal suo naso due fiotti di respiro che la mia inspirazione afferrò e portò dentro senza pensarci, le labbra si toccarono precipitosamente, sotto il rossetto disidratato sentii il tepore di un nido, come se nella sua bocca si stessero per schiudere delle uova, come se covasse là dentro i gusci bianchi di creature pronte alla vita.

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